Il 2 febbraio scorso la BCE ha deciso un innalzamento dei tassi di interesse di altri 50 punti base e ha annunciato per il prossimo Consiglio direttivo di marzo un ulteriore rialzo di pari entità, per poi valutare più avanti le proprie decisioni di politica monetaria in base all’evoluzione della situazione macroeconomica e, in particolare, dell’inflazione.
Sappiamo che l’obiettivo delle banche centrali è quello di mantenere la stabilità dei prezzi intervenendo con strumenti che modifichino la base monetaria o i tassi di interesse, con la finalità ultima di agire indirettamente sui tassi a medio/lungo termine.
In questo caso la BCE intende raffreddare la corsa dei prezzi mediante l’innalzamento del costo del debito e la conseguente contrazione della capacità di spesa dei consumatori.
L’adozione di politiche iper-restrittive ha però conseguenze anche sulle aziende. Non solo perché banalmente aumenta il costo del credito bancario, che incide in modo diretto sul conto economico e, quindi, sulla spesa per investimenti; ma anche per una ragione più indiretta che a che fare con la valorizzazione dei flussi di cassa futuri e dei risultati economici che le aziende saranno in grado di produrre.
Nel momento in cui bisogna definire il valore di un’azienda, nelle eventualità di una cessione o di qualunque altra operazione di discontinuità, è necessario infatti interrogarsi sul modo in cui tali dinamiche monetarie, decisamente restrittive, influenzino il processo di determinazione dell’enterprise value.
DECISIONI DI POLITICA MONETARIA
La Banca centrale per “aggiustare” il tasso di riferimento interviene sul mercato interbancario, andando a modificare il costo dei finanziamenti overnight unsecured ovvero il tasso di riferimento a breve termine in base al quale viene fornita liquidità agli istituti di credito.
In pratica, modificando i tassi di interesse a breve termine si varia il costo del denaro a cui si riforniscono le banche, che poi trasferiscono tali variazioni sugli utenti finali, i quali subiranno, in un certo lasso di tempo, un analogo impatto in termini di tassi pagati sui mutui e sui finanziamenti in genere.
La modifica dei tassi ha una ripercussione anche sul mercato delle obbligazioni, compresi i titoli di Stato, il cui valore si adegua al nuovo costo del debito e quindi dei titoli di nuova emissione.
Tra il 2007 e il 2009 il periodo di stagnazione seguito alla crisi dei mercati finanziari ha spinto le banche centrali ad intervenire per combattere principalmente la deflazione.
Per far ciò sono stati utilizzati sia strumenti convenzionali di intervento, agendo sui tassi di interesse a breve termine, sia politiche non convenzionali al fine di garantire liquidità ai mercati finanziari e il funzionamento dell’economia nel suo complesso.
Al picco della crisi i tassi sono stati così bassi da raggiungere lo “zero lower bound” ossia il limite minimo oltre il quale i tassi non possono essere fissati e il potere di influenza degli istituti centrali sulla situazione macroeconomica è estremamente limitato.
Dopo questo periodo più che decennale di politiche massimamente espansive ci apprestiamo ora a conoscere un periodo di politiche monetarie ultra-restrittive.
La domanda che ci poniamo da tecnici della finanza di impresa è come tale dinamica che, per i motivi detti prima, influisce sul conto economico a breve/medio termine delle aziende, si riverberi anche sul loro valore complessivo allorché ci si accinga a stimarne il prezzo attuale.
In altre parole, di quali variabili deve tenere conto l’esperto nel processo peritale di valutazione dell’azienda di fronte a tassi di interesse in ascesa?
ATTUALIZZAZIONE DEI FLUSSI FUTURI, TASSI DI SCONTO E VALORE NETTO
Secondo la prassi metodologica più largamente utilizzata, che rispecchia la teoria del Valore Attuale Netto o VAN, il valore delle aziende è rappresentato principalmente dal valore attuale dei flussi di cassa futuri e attesi dalla società.
Si utilizza, quindi, soprattutto il metodo del Dicounted Cash Flow o DCF che non fa altro che scontare, ad un determinato tasso, il flusso di cassa operativo generato dalla gestione caratteristica dell’azienda in un certo intervallo temporale, escludendo da tale flusso le componenti straordinarie o finanziarie.
Il tasso di sconto più utilizzato è quello che pondera, in una media aritmetica, il costo del debito e il costo del capitale proprio. In questa media ponderata i “pesi” sono rappresentati dall’incidenza dei mezzi propri e dei debiti finanziari dell’azienda sul totale delle fonti di finanziamento.
Per ottenere questo tasso di sconto ponderato, detto anche Weighted Average Cost of Capital o WACC è, quindi, necessario determinare il costo del capitale proprio (Ke), che è funzione del rendimento dei titoli risk free e del rischio proprio dell’attività aziendale, moltiplicato per il premio al rischio di mercato:
Ke = rf + β (rm – rf)
Dove:
rf = risk free: rendimento dei titoli privi di rischio (titoli di Stato);
β = coefficiente di rischiosità non diversificabile;
(rm – rf) = MRP = Market Risk Premium: premio (extra-rendimento) per il rischio di mercato (rm), rispetto al tasso privo di rischio (rf).
Il Costo del Capitale Proprio
Il costo del capitale proprio (Ke) rappresenta, quindi, il rendimento minimo che una società deve offrire ai propri azionisti al fine di remunerare i fondi da questi ricevuti.
Dalla formula sopra esposta si intuisce come un innalzamento del free risk rate (Rf), come sta accadendo attualmente con i tassi dei titoli di Stato (di solito si prende a riferimento quello dei Btp a 10 anni), porti ad un aumento anche del costo dei mezzi propri.
Allo stesso tempo aumenteranno anche i tassi nel medio periodo ovvero saliranno strutturalmente i costi necessari perché un’azienda si rifinanzi e investa, con un’incidenza diretta anche sul valore dell’azienda.
Complessivamente l’aumento del costo del capitale proprio e del costo del debito farà sì che i flussi di cassa vengano scontati, secondo la formula del WACC, ad un tasso più elevato che genererà, quindi, un valore attuale dell’impresa più basso.
La variazione dei tassi di interesse ha pertanto un duplice effetto: da una parte influenza il costo del funding delle società e dei consumatori (che affronteranno costi più elevati per i mutui, gli scoperti di cassa, le carte di credito, i finanziamenti per investimenti) diminuendone la porzione di reddito potenzialmente spendibile; dall’altra influenza le aspettative per il futuro facendo variare il valore attualizzato dei flussi prospettici.
EVIDENZE EMPIRICHE DELLA CORRELAZIONE
Per trovare delle evidenze empiriche di quanto appena detto, ovvero di una correlazione tra il livello dei tassi di interesse e il valore attuale delle aziende, può essere utile guardare al periodo che sta ormai alle nostre spalle.
Come abbiamo visto, le misure convenzionali e non convenzionali messe in atto dalle banche centrali di tutto il mondo a partire dal 2008 hanno portato il livello liquidità complessiva a livelli tali da consolidare i tassi di interesse su valori prossimi o uguali allo zero.
Si può sicuramente affermare, quindi, che l’espansione della base monetaria ha avuto come effetti una maggiore facilità nell’accesso al credito ed un minor costo per interessi. Uno studio di Goldman Sachs (Fonte: Goldman Sachs Investments Research) sul periodo 2007-2015 ha mostrato, ad esempio, che le aziende americane pagavano un tasso medio sul debito del 6% nel 2009 per passare a circa il 4% nel 2015 e scendere ulteriormente nei primi nove mesi del 2016.
Questo a riprova del basso costo del funding affrontato mediamente dalle aziende in seguito agli effetti delle politiche monetarie espansive.
La liquidità immessa nel sistema è continuamente aumentata sia negli USA che in Europa sino all’estate del 2012, allorché la BCE ha deciso un cambio di strategia agendo principalmente su un decremento dei tassi di interesse.
Indici Azionari e Tassi di interesse
Può risultare allora interessante analizzare da un punto di vista statistico il legame tra tassi di interesse e valore delle aziende prendendo come riferimento gli indici azionari ovvero i prezzi delle azioni e quindi la capitalizzazione delle imprese quotate in Borsa.
In un’analisi di regressione che valuti la relazione tra un indice azionario come l’MSCI Europe e l’andamento dei rispettivi livelli di tassi di interesse si riscontra che ad una diminuzione dei tassi corrisponde un aumento dei prezzi di mercato (Fonte: Tamburi Investment Partners S.p.A. – Prezzi & Valori, 2016).
In altre parole, la riduzione dei tassi di interesse decisa dalla BCE in seguito alla crisi finanziaria del 2008 si è dimostrata negli anni inversamente proporzionale all’andamento degli indici azionari e quindi al valore delle aziende.
Al contrario, uno studio di Credit Suisse del 2016 (Fonte: Credit Suisse Global Investment Yearbook 2016) ha dimostrato come i prezzi delle azioni diminuiscano al crescere dei tassi di interesse.
CONCLUSIONI
Le analisi condotte mostrano inequivocabilmente una relazione inversa tra tassi di interesse e performance dei mercati e quindi del valore delle aziende.
Ci riferiamo ai valori espressi dai mercati per le aziende quotate come a una misura estremamente oggettiva, proprio perché determinata non da valutazioni soggettive di singoli esperti ma a dinamiche reali di mercato.
Tuttavia, il motivo di tali dinamiche è insito nelle formule a cui gli esperti ricorrono per svolgere le proprie valutazioni. Se il tasso di sconto che utilizzerò nell’attualizzazione dei flussi di cassa futuri è più elevato, in forza di un aumento del rendimento dei titoli privi di rischio e del costo del debito, il valore che otterrò sarà per forza più basso.
Queste dinamiche se vogliamo hanno generato l’anomalia riscontrata nel periodo post-crisi del 2008 ovvero un valore delle aziende in crescita nonostante un quadro macroeconomico di stagnazione. Se, infatti, l’innalzamento dei tassi di interesse fosse rappresentativo dello sviluppo economico, il valore delle aziende dovrebbe crescere maggiormente solo in uno scenario di crescita complessivo dell’economia.
Questo non è avvenuto nell’ultimo decennio e non sembra avverrà il contrario nell’immediato futuro. È probabile, infatti, che l’aumento dei tassi si accompagnerà se non a una recessione dell’area Euro almeno ad un periodo di bassa crescita.
Questo dipende, forse, dal fatto che l’inflazione in area Euro, che la BCE si propone di combattere, dipende in misura limitata dalle sue determinanti classiche e in larga misura invece dall’aumento dei prezzi dell’energia.
Le decisioni di politica monetaria dovrebbero, quindi, seguire maggiormente l’andamento del prezzo del gas e regolarsi di conseguenza di fronte ad un suo rallentamento, moderando l’aumento dei tassi di interesse anche di fronte ad un livello complessivamente alto dell’inflazione tout court.