L’inquadramento delle criptovalute impegna il dibattito giuridico attuale come pochi altri argomenti nel recente passato.
Già addivenire ad una definizione univoca di tali strumenti, dotati della natura ambivalente di moneta e strumenti di pagamento e, al contempo, di mezzi finanziari e forme di investimento, non è per niente agevole.
Sotto il profilo fiscale, l’art. 67, comma 1, lett. c-sexies del Tuir come novellato dalla Legge di Bilancio 2023 definisce le cripto attività “(…) una rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti e memorizzati elettronicamente utilizzando la tecnologia di registro distribuito o una tecnologia analoga”. Definizione questa che non fa fare passi avanti nell’inquadramento civilistico, soprattutto allorché si debbano trattare questioni come il conferimento di criptovalute a sottoscrizione di un aumento di capitale di una società.
Il Bitcoin può essere visto come un “artefatto digitale trasferibile ma non duplicabile” (F.M. Ametrano in Bitcoin e cripto-attività, Il Sole 24 Ore 2013). Questa caratteristica intrinseca alla tecnologia che lo produce lo rende spendibile una volta sola (lo stesso bitcoin non può essere speso due volte) producendo una scarsità suscettibile di valorizzazione economica da parte del mercato.
Il mercato riconosce valore a una criptovaluta nella misura in cui essa è in grado trasferire valore economico in maniera sicura, veloce e con costi trascurabili. Il confronto più immediato è con i protocolli che permettono i bonifici bancari, le transazioni transcontinentali tra valute, con le loro lentezze e macchinosità, o l’uso delle carte di credito e la loro esposizione a usi fraudolenti.
Ma se il mercato, ovvero la comunità degli utilizzatori, conferisce ai crypto-asset un valore, come questo può essere speso in transazioni legali che prevedano prestazioni corrispettive? E, per quello che interessa a noi, come possono entrare a far parte del patrimonio di una società, ad esempio mediante conferimento a sottoscrizione del suo capitale sociale?
PROFILI CIVILISTICI
La questione di fondo, che rimane controversa in dottrina, è se le criptovalute possano essere considerate alla stregua di una moneta. Non essendo emesse da un’autorità statale o sovranazionale, ed essendo al contrario frutto di un’attività privata, mancano del sigillo sovrano. Inoltre, non rientrano nel cosiddetto “corso forzoso”, per cui non devono essere accettate obbligatoriamente come mezzo di pagamento. Tuttavia, vi è chi le accetta come tali e possono essere scambiate con una valuta avente corso forzoso sulle piattaforme di Exchange.
Ai sensi dell’art. 810 c.c. possono quindi essere ricondotte in senso ampio e tutto sommato unanime nell’alveo dei beni immateriali, come “cose che possono formare oggetto di diritti”. Un’obbligazione avente ad oggetto delle criptovalute non potrebbe pertanto essere qualificata come obbligazione pecuniaria ma come impegno a dare beni digitali fungibili, rientrando nella disciplina della permuta.
Questa considerazione non esaurisce però il dibattito sulla natura delle criptovalute alimentato da pronunce giurisprudenziali che ne esaltano la funzione di mezzo di pagamento contrapposte ad altre che ne esaltano la natura di bene e di investimento.
Sappiamo che la sicurezza, ad esempio, dei bitcoin è basata su un libro mastro, la blockchain, che riporta tutte le transazioni e i criteri dei trasferimenti di bitcoin. Tale libro contabile non è manipolabile e i bitcoin non possono essere duplicati. Sotto questo profilo essi costituiscono dei titoli al portatore esattamente come le banconote. Per questo motivo una loro eventuale sottrazione fraudolenta è difficilmente rimediabile, dal momento che la titolarità è data dal possesso. Ma il suo valore, invece, da cosa è conferito?
La V Direttiva Antiriciclaggio e, in particolare, il D.lgs. n. 125 del 4 ottobre 2019, ha fornito una definizione ampia e al contempo completa delle criptovalute, inquadrandole come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’Autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
CONFERIMENTO NEL CAPITALE SOCIALE
Veniamo ora al nostro argomento e, nello specifico, al caso su cui è trovato a decidere il Tribunale di Brescia nel 2018 relativo alla possibilità di conferire delle criptovalute nel patrimonio di una società di capitali.
La vicenda originava dal rifiuto di un notaio di iscrivere al Registro delle Imprese una delibera di aumento di capitale in natura, sottoscritto da uno dei soci mediante conferimento della criptovaluta Onecoin. Su questa decisione la società aveva interpellato il Tribunale di Brescia che a sua volta si rifiutava di omologare la delibera. La decisione basava sulla mancanza da parte della valuta elettronica in questione di alcuni requisiti ordinamentali in materia di composizione del capitale sociale, poiché essa:
- Non era suscettibile di valutazione economica, non essendovi un mercato di riferimento su cui venisse scambiata;
- Non poteva costituire “bersaglio dell’aggressione da parte dei creditori sociali”, ossia mancava “l’idoneità a essere oggetto di forme di esecuzione forzata”.
La Corte di Appello del capoluogo lombardo, presso cui la decisione era stata reclamata dalla società, confermava la decisione di primo grado, ponendo in evidenza soprattutto il primo rilievo ovvero l’impossibilità di dare una valutazione economica della moneta elettronica Onecoin.
Secondo il giudice di seconde cure le criptovalute, considerate le funzioni da esse effettivamente svolte, dovrebbero essere equiparate ad una vera e propria moneta e non essere considerate alla stregua di beni o servizi differenti dal denaro.
Questo porterebbe ad affermare che “l’effettivo valore economico della criptovaluta non può in conseguenza determinarsi con la procedura di cui al combinato disposto dei due articoli 2264 e 2265 c.c. – riservata a beni, servizi ed altre utilità diverse dal denaro – non essendo possibile (…) attribuire valore di scambio ad un’entità essa stessa costituente elemento di scambio (contropartita) nella negoziazione. Non è, d’altro canto, dato conoscere, allo stato, un sistema di cambio per la criptovaluta, che sia stabile ed agevolmente verificabile, come per le monete avente corso legale in altri Stati (dollaro, yen, sterlina etc.)” (Corte di Appello di Brescia, 30 ottobre 2018).
In altre parole, se la valuta elettronica è essa stessa moneta non se ne può stabilire il controvalore monetario, tanto più se manca un sistema di cambio affidabile.
PRASSI RECENTE E CASO “BAIG RESEARCH CENTRE S.R.L.”
Si può ritenere che una decisione come quella del Tribunale di Brescia sia originata dalle caratteristiche specifiche della valuta elettronica in questione, Onecoin, un token gestito e scambiato solo su una piattaforma, Onelife, e pertanto effettivamente priva di un consistente mercato di riferimento.
Tuttavia, se ci riferiamo al più vasto universo delle criptovalute, esso è composto da migliaia di valute virtuali, alcune delle quali, come il bitcoin o l’ether, riscontrano un tasso di conversione con le valute legali determinato sulle piattaforme informatiche che ne propongono lo scambio, gli Exchange di valute virtuali appunto.
Allo stesso tempo è stato rilevato che quando il conferimento avvenga in moneta non avente corso legale nello Stato (come valute non riconosciute o non più in circolazione) “si pone la necessità di verificare che il loro valore di mercato sia adeguato alla necessità di coprire un capitale ad un valore espresso in moneta, il che palesemente richiede che i conferimenti siano stimati e che la stima sia controllata”. (M.S. Spolidoro, I conferimenti in danaro, in G.E. Colombo -G.B. Portale, Trattato delle società per azioni, Torino, 2004).
Considerazioni di natura maggiormente pragmatica hanno di recente reso possibile la nascita della prima società con vincoli di valuta virtuale, la Baig Research Centre s.r.l.
In questo caso la soluzione è stata identificata nella consegna preventiva della criptovaluta ad un custode come deposito irregolare. Il depositante è divenuto così titolare di un diritto di credito alla restituzione di altrettante criptovalute della stessa specie che ha poi conferito nella società in esecuzione dell’aumento di capitale. Tale diritto di credito, oltre ad essere suscettibile di valutazione economica, è anche aggredibile dai creditori sociali con un pignoramento presso terzi. In questo modo sono stati superati i limiti evidenziati dalle pronunce sopra esaminate.
CONCLUSIONI
Quanto analizzato porta a concludere che ogni tentativo di definire in maniera univoca le criptovalute è destinato a lasciare aree più o meno ampie di insoddisfazione dottrinale e problemi giuridici irrisolti.
“Code is law” è stato a lungo il mantra ripetuto sia nell’ambiente che ha promosso la nascita delle valute virtuali, come risposta alla centralizzazione del potere di emettere moneta, sia nel mondo accademico e delle professioni, legittimando l’idea che i crypto-asset potessero sfuggire all’applicazione di leggi che li disciplinassero.
Nel 2020 con la presentazione del Digital Finance Package la Commissione Europea ha posto in essere un pacchetto corposo di norme in materia di digitalizzazione della finanza, nel tentativo di superare i percorsi legislativi solitari dei diversi Stati della UE e di unificarli in corpus condiviso.
In Italia vi erano già stati gli interventi della Banca d’Italia e della Consob, l’istituzione dell’Anagrafe tributaria delle criptovalute e da ultimo quelli dell’ultima Legge di Bilancio.
Con buona pace dei libertarians, che fanno della sottrazione delle criptovalute a qualunque regolamento statale il loro credo ideologico, l’esistenza di norme e il consolidarsi della giurisprudenza non possono fare altro che aiutare, all’atto pratico, l’affermazione dei crypto-asset nelle transazioni economiche e la loro circolazione nella società del futuro.