La crescente enfasi posta sulla struttura finanziaria e patrimoniale delle imprese, la centralità degli indici che ne misurano i vari rapporti nelle decisioni di investimento e credito, trovano un riscontro concreto nelle dinamiche aziendali oggettivamente misurabili? Quali differenze emergono empiricamente, in termini di performance, tra realtà imprenditoriali con dimensioni patrimoniali e posizioni finanziarie differenti? Per dirla in maniera più prosaica, gli indici di bilancio sono davvero importanti o risultano di fatto solo un “pallino” di banche e consulenti?
Sono domande che è giusto porsi nell’approccio tanto professionale quanto manageriale all’analisi e alla pianificazione di un’efficace strategia aziendale. Non a caso ha provato a rispondervi l’AIDAF ovvero la Cattedra di Strategia delle Aziende Familiari istituita dall’Università Bocconi insieme a EY che, con la collaborazione del fondo FSI, ha condotto una ricerca su un campione di 16.845 imprese italiane con fatturato superiore a 20 milioni di euro, per misurare l’impatto che la capitalizzazione ha sulla crescita e la redditività delle aziende familiari nonché l’impatto sugli investimenti delle società partecipate da un fondo di private equity.
MODELLI DI ANALISI E RISULTATI
Gli autori della ricerca, i professori Guido Corbetta, Mario Amore e Fabio Quarato, al fine di analizzare il rapporto tra situazione debitoria e risultati economici delle imprese a campione, hanno condotto due tipi di esami:
- Uno riguardante la relazione tra ammontare del debito e i livelli di crescita e redditività negli anni successivi;
- Uno relativo all’effetto innescato da un maggiore o minore utilizzo della leva finanziaria sulla performance di aziende con un basso livello di indebitamento iniziale.
Gli indicatori di struttura finanziaria presi in considerazione nel primo caso sono stati due: Posizione Finanziaria Netta su Mezzi propri (PFN/Equity) e su EBITDA (PFN/EBITDA).
Rispetto al primo test emerge che “una unità del rapporto PFN/EBITDA riduce la media annua dei 5 anni successivi dei seguenti indicatori di performance”:
- Tasso di crescita annuo dei ricavi (-1,5%)
- ROA – Return on Asset (-6,0%)
- Tasso di crescita annuo delle immobilizzazioni (-1,7%)
- EBITDA margin (-9,5%)
- Tasso di crescita annuo EBITDA (-2,6%)
- Tasso di crescita annuo Attivo netto (-1,9%)
Emerge chiaramente una relazione negativa tra il livello di indebitamento di un’impresa e le performance economiche su un orizzonte temporale di 5 anni.
Alle stesse conclusioni si giunge analizzando l’altro indicatore ovvero PFN/Equity, dal momento che un aumento di 1 unità di tale rapporto porta ai seguenti risultati:
- Tasso di crescita annuo dei ricavi (-3,6%)
- ROA – Return on Asset (-10,4%)
- Tasso di crescita annuo delle immobilizzazioni (-3,6%)
- EBITDA margin (-9,1%)
- Tasso di crescita annuo EBITDA (-2,5%)
- Tasso di crescita annuo Attivo netto (-3,7%).
Le stesse analisi sono state condotte anche su un orizzonte temporale più lungo, giungendo sempre però alla conclusione che tanto più elevato è il livello del debito tanto più inferiori sono i tassi di crescita e redditività negli anni successivi rispetto a realtà aziendali con strutture finanziarie con maggior peso dell’equity.
Il secondo tipo di analisi aveva ad oggetto solo imprese il cui grado di indebitamento era in partenza inferiore alla mediana delle realtà prese a campione ed ha valutato esclusivamente il rapporto tra PFN e Patrimonio netto (PFN/PN).
Anche in questo caso emerge un peggioramento delle performance negli anni successivi in cui si incrementa l’utilizzo della leva finanziaria e questo effetto è tanto più accentuato quanto più elevato è l’indebitamento iniziale.
IMPATTO SUGLI INVESTIMENTI DELLE AZIENDE PARTECIPATE DA UN PRIVATE EQUITY
La seconda parte della ricerca si è concentrata sulle aziende nel cui capitale siano presenti fondi di private equity. Analizzando in particolare il tasso di crescita delle immobilizzazioni in rapporto al livello di capitale proprio iniziale, si evince che gli investimenti, in seguito all’entrata dei fondi, aumentano tanto più quanto minore è il livello di debito iniziale nella società target. L’effetto è ancor più evidente nelle operazioni in cui il private equity abbia acquisito la maggioranza.
CONCLUSIONI
In un sistema economico-imprenditoriale “bancocentrico” come quello italiano, i risultati della ricerca citata, non fanno che confermare quanto delle difficoltà di crescita economica, anche e soprattutto in termini di produttività, siano da ricercare nella mancanza di una “cultura dell’equity” che favorisca anche e soprattutto gli investimenti.
Per vincere la sfida della crescita dimensionale, ci dicono i dati analizzati, le imprese devono essere in grado di compiere scelte di apertura del capitale a investitori terzi, scelte di governance e di gestione aziendale, sapendo che una struttura finanziaria meno sbilanciata e una patrimonializzazione più solida aumentano le chance di successo nel medio-lungo periodo.
Allo stesso tempo la ricerca parla anche agli operatori di private equity, che possono svolgere un ruolo cruciale a livello di sistema, e che vedono confermati i motivi che spingono a scegliere tra le aziende target quelle che maggiormente utilizzano capitale di rischio rispetto al debito.