Secondo i dati diffusi, tra gli altri, da Azimut Libera Impresa, LIFT e Club degli investitori, l’ammontare degli investimenti in start-up e PMI innovative, nei primi tre mesi del 2023, è stato di 201 mln di euro, in calo del 5% rispetto all’ultimo trimestre dell’anno prima, nonostante un numero di round in lieve ascesa, e una flessione del 48% sulla media del biennio precedente.
I dati sono leggermente migliori del resto d’Europa, dove complessivamente nello stesso periodo si è registrato un calo degli investimenti del 14%.
Il dato nazionale fa comunque sorgere degli interrogativi considerato che, secondo Italian Alliance Tech, le sgr italiane avrebbero ancora a disposizione oltre 1,1 mld di euro da investire, vale a dire oltre il 50% della raccolta degli ultimi anni.
ATTRATTIVITA’ DELLE START-UP
Questa reticenza a impiegare le proprie risorse da parte dei fondi di VC ha portato qualcuno a mettere in dubbio la capacità delle start-up di attrarre finanziamenti per motivi strutturali.
I ricorrenti fallimenti, i bilanci cronicamente in perdita, la fragilità di progetti imprenditoriali, che stentano spesso a decollare, terrebbero lontani gli investitori, fino a determinare una tendenza all’abbandono del settore.
Sicuramente sui dati trimestrali del 2023 incidono fenomeni macroeconomici come l’iperinflazione o situazioni di incertezza come i fallimenti bancari.
Tuttavia, interrogarsi sui propri limiti e sulle proprie mancanze potrebbe essere un esercizio non del tutto vano, soprattutto nel nostro paese, per il mondo delle start-up. Perché molte di esse, per non dire la stragrande maggioranza, non arriva sufficientemente attrezzata all’appuntamento con gli investitori? Si tratta di carenza di piani solidi e credibili? Di scarsa capacità di execution? Di debolezza dei team e quindi di credibilità? Manca la consuetudine a finalizzare idee, ricerca e sviluppo in brevetti e privative? È probabile ovviamente che si tratti di una combinazione di tutti questi elementi, più altri che influenzano attitudine e comportamenti degli startupper italiani.
L’IMPORTANZA DI AVERE UN PIANO
Spesso la supposizione, errata, di molti neo-imprenditori è che basti l’idea a fare l’impresa: il resto verrà da sé.
Si trascura così l’elaborazione di solidi e accurati Business plan che, ove presenti, sono di frequente carenti nella parte di analisi di mercato, di proiezione delle vendite, di programmazione finanziaria.
La fase progettuale di elaborazione del piano dovrebbe invece essere meticolosa e preordinata non solo alla costituzione del veicolo societario ma anche alla ricerca di soci e finanziatori. Ogni piano dovrebbe contenere adeguate previsioni di exit ed essere accompagnata da una sorta di crash test che simuli cosa accadrà all’azienda e, quindi, ai capitali in essa investiti, qualora il piano dovesse andare male, in tutto o in parte.
Insomma, la previsione degli scenari al mutare di certe condizioni, in grado di dare agli investitori se non insperate certezze almeno un certo grado di consapevolezza sui rischi corsi dai propri capitali.
D’altra parte cominciare con il giusto approccio, definendo sin da subito adeguati piani finanziari volti a cogliere la dinamica dei flussi di cassa prospettici che l’azienda sarà in grado di generare, piuttosto che i meri dati di fatturato o di volume, sarebbe senz’altro un buon viatico al dialogo con investitori professionali.
LA TRAPPOLA DELLA LIQUIDITA’
La tentazione di fare “i capitalisti senza capitali” ovvero di partire alla “ventura” senza risorse finanziarie adatte allo scopo o senza un serio progetto che preveda come e dove reperirle, conduce molte start-up a dibattersi in quella che a tutti gli effetti appare come una sorta di “trappola della liquidità”.
In altre parole, società neo-costituite o con poca vita alle spalle non sono in grado di attestare una execution sufficiente ad attrarre finanziamenti e, allo stesso tempo, la carenza di liquidità e i ritardi nel rinvenirla limitano gli investimenti e le azioni necessarie a generare un adeguato grado di esecuzione del piano imprenditoriale.
Spesso si riscontra, anche nell’esperienza di chi scrive, una predilezione da parte dei fondi di Venture Capital nei confronti di progetti e idee meno dirompenti o innovativi sulla carta ma con buoni livelli di execution rispetto a progetti meno maturi seppure più attraenti sul piano tecnologico.
SOLUZIONI PER PARTIRE
Per spezzare questo potenziale circolo vizioso le start-up devono avere consapevolezza di quali fonti di finanziamento facciano al caso loro e cercare di attivarle nei tempi e modi giusti.
È bene, ad esempio, sapere che, a parte i fondi che investono nelle fasi seed e early stage, per molte start-up sarà più facile, nella loro fase embrionale, rivolgersi ai cosiddetti “Family&Friends” se non direttamente al bootstraping ovvero ai risparmi personali dei founders.
Ormai anche le piattaforme di crowdfunding chiedono un certo livello di execution e un investment leader per assicurare il successo al progetto di raccolta. Non è per niente facile, quindi, quotare semplici Business plan privi di numeri verificati in almeno qualche trimestre di attività che rendano l’azienda appetibile per un investitore.
Ancor meno è possibile ricorrere ai finanziamenti bancari senza almeno un triennio di bilanci depositati alle spalle, come sa chiunque abbia provato ad approcciare un istituto di credito alla ricerca di un prestito.
Pertanto, all’inizio gli sforzi dovranno essere rivolti ad attrarre risorse a basso costo necessarie a far partire il progetto nonché a percorre un buon pezzo di strada. Ad esempio, si potrà ricorrere al “work for equity” per acquisire le competenze necessarie all’attività caratteristica e alle funzioni manageriali ed operative dell’azienda, rafforzando così il proprio team. O ancora, si potrà partecipare a bandi di finanza agevolata presenti in gran numero, da Smart&Start Italia a Industria 4.0.
CONCLUSIONI
L’avvio di un’impresa e la sua conduzione al successo sono senz’altro tra le esperienze più stimolanti e difficili che ci si possa trovare a vivere nella propria carriera lavorativa, imprenditoriale o manageriale che sia.
Non si intende dare qui buoni consigli né si pretende di insegnare il mestiere a nessuno. L’obiettivo è piuttosto quello di condividere i frutti di un’esperienza maturata a fianco di numerose start-up, accomunati sempre da traguardi e fallimenti. Non ci sarà mai un modo giusto o sbagliato di fare impresa, ma senz’altro ci saranno molti modi di partire e procedere preparati e altrettanti per farlo senza preparazione e informazioni. Il paradosso è che costa la stessa fatica: riuscire o fallire è tutta la differenza che c’è.
A metà del 2022, i dati del Governo attestavano l’esistenza in Italia di oltre 14 mila imprese innovative iscritte al registro delle imprese, un numero in crescita dell’1,8% rispetto al trimestre precedente. Così come in crescita è stato nello stesso periodo il numero di start-up con founder under 35, per un totale maggiore del 17%. Gli ambiti più significativi per numeri espressi sono lo sviluppo di software, la fabbricazione di prodotti elettronici e la consulenza IT.
Infine, sempre nel 2022 gli investimenti in start-up ammontavano a circa 2 miliardi e 340 milioni, con 192 round eseguiti.
Fa da contraltare a questi numeri, sicuramente esemplificativi di un settore in perenne fermento, un tasso di fallimenti decisamente troppo elevato, pari nei primi quattro anni di vita di una start-up al 95%.
C’è tanto da fare, quindi, per consolidare business spesso troppo fragili, basati su idee non sufficientemente validate prima dell’avvio, per ravvivare la raccolta di fondi da investitori professionali e farsi trovare pronti alla loro corretta gestione. C’è tanto da fare ma non mancano né i talenti né la volontà per riuscire.