CONTINUITÀ AZIENDALE E CONTINUITÀ INDIRETTA
Come noto, ormai diversi anni fa, il legislatore nazionale introduceva la procedura di concordato con continuità aziendale, cercando di normare prassi operative e giurisprudenziali che già trovavano applicazione e legittimazione nelle sezioni fallimentari dei vari tribunali italiani.
La formulazione normativa però ha dato origine ad un dibattito interpretativo sul concetto di “continuità aziendale” che ha portato ad un vero e proprio spaccamento della giurisprudenza di merito, che si è divisa sull’ammissibilità e legittimità del concetto della cd. “continuità indiretta” dell’azienda e della conseguente procedura concordataria che su tale “indiretta” (o esterna) continuazione dell’azienda si fonda. Per “continuità indiretta” deve intendersi comunque continuità dell’apparato aziendale ma posta in essere da un soggetto terzo rispetto all’imprenditore che accede al concordato.
In relazione a tale divisione giurisprudenziale, si vogliano prendere ad esempio alcune pronunce emblematiche delle corti di merito per poi valutare come la cassazione (ed un ulteriore intervento para-normativo) abbiano infine sciolto il dubbio che la formulazione letterale della norma non permetteva di risolvere.
Fra chi propendeva per la naturale ammissione del concordato con continuità indiretta vi era il Tribunale di Macerata (Tribunale di Macerata – 12 gennaio 2017 – uff. fallim., pres. Reale, rel. Tinessa) che senza troppi formalismi – e quasi de plano – ammette la “continuazione indiretta” come se la stessa fosse un concetto ormai pacificamente ammesso dall’ordinamento. Purtroppo, però non è così: solo qualche mese prima rispetto alla pronuncia citata, il Tribunale di Como (27 aprile 2016), in totale dissenso con la pronuncia della corte Maceratese, negava dignità alla continuazione “indiretta” ed in un caso fattualmente identico a quello al vaglio della sezione fallimentare del Tribunale di Macerata, disconosceva la possibilità di qualificare il concordato “in continuità” nel caso in cui fosse prevista una gestione dell’azienda di soggetti terzi rispetto al debitore concordatario.
Lo schema operativo sottoposto al vaglio dei due Tribunali era il medesimo: l’imprenditore in difficoltà aveva sottoscritto con soggetti terzi due separati contratti di affitto di rami d’azienda, prima del deposito dell’istanza concordataria, ed aveva poi presentato un piano di concordato in continuità aziendale che aveva come presupposto di realizzazione e di adempimento proprio la gestione “esterna” dell’azienda da parte dei soggetti terzi affittuari. Come anticipato le risposte dei due Tribunali, alla stessa domanda, sono totalmente antitetiche. Favorevole Macerata, contraria Como. Le due sentenze si inseriscono in due filoni giurisprudenziali le cui riflessioni devono essere analizzate nello specifico.
LA TESI DEL “NO” ALLA COESISTENZA DELL’AFFITTO D’AZIENDA CON IL CONCORDATO IN CONTINUITÀ
I motivi del NO ad una convivenza fra affitto di d’azienda e concordato in continuità risiedono in primo luogo in un’interpretazione “soggettiva” della continuità aziendale, precisando che tale requisito sarà integrato solamente quando è l’imprenditore in difficoltà (e non altri) a continuare l’attività aziendale.
Un’operazione che preveda l’estrazione dell’azienda mediante un suo affitto a terzi perché quest’ultimo la conduca non sarebbe, secondo l’opinione in oggetto, in linea con il disposto del nuovo art. 186-bis della legge fallimentare che sarebbe stato voluto dal legislatore per permettere al solo debitore la continuazione dell’azienda. La tesi si fonderebbe anche su un’esegesi letterale della norma: il primo comma dell’art. 186-bis, infatti, non fa menzione dell’affitto come modalità di prosecuzione dell’esercizio aziendale e di realizzazione del concordato in continuità. Inoltre, l’imprenditore affittante non sopporterebbe in nessun modo il rischio di impresa, che sarebbe appunto “affittato” al nuovo soggetto conduttore dell’azienda in affitto.
Peraltro, in schemi negoziali in cui l’imprenditore in difficoltà affitta l’azienda a terzi percependo solo i canoni di affitto (spesso in conto pagamento del prezzo finale di cessione in ipotesi atipiche di rent to buy aziendale), l’elemento “liquidatorio” del concordato è molto forte. Al debitore, infatti, rimane solamente l’incasso di canoni di affitto ed un prezzo di cessione finale che rappresentano in fin dei conti, e da un punto di vista economico, il corrispettivo finale per la cessione della propria attività con interruzione dell’attività sociale ed imprenditoriale.
Infine, un’ulteriore argomentazione a supporto della tesi della necessarietà della continuità “diretta” e soggettiva, risiede nella valorizzazione della disciplina contenuta nel comma 3 dell’art. 186-bis: la possibilità di subentro nei contratti con le pubbliche amministrazioni che sono spesso incentrati sulle qualità personali del contraente (es. possesso dei requisiti previsti dalla normativa antimafia) al posto della normale disciplina di recesso ex art. 2558 c.c., sarebbe infatti sintomo del fatto che le agevolazioni tipiche del concordato in continuità sono concesse solamente se è l’imprenditore in difficoltà a proseguire la sua azienda. Non si giustificherebbe altrimenti una deroga alla normale normativa civilistica a favore di soggetti che fino a quel momento non avevano avuto niente a che fare con l’azienda.
In considerazione di quanto precede, parte della dottrina ed un nutrito numero di precedenti giurisprudenziali delle corti di merito tendono ad escludere la possibilità di avere un concordato in continuità in presenza di concessione a terzi della gestione dell’azienda (e quindi ritengono incompatibili l’affitto del complesso aziendale con la procedura ex art. 186-bis della legge fallimentare). Si vedano sull’argomento, il già citato Tribunale Como 29 aprile 2016, Tribunale Firenze 01 febbraio 2016, Tribunale Pordenone 04 agosto 2015, Tribunale Ravenna 22 ottobre 2014, Tribunale Busto Arsizio 01 ottobre 2014, Tribunale Patti 12 novembre 2013, Tribunale Ravenna 29 ottobre 2013, Tribunale Terni 28 gennaio 2013.
LA TESI DEL “SI”
Vi è invece una seconda parte della giurisprudenza che ritiene la coesistenza dell’affitto d’azienda ed il concordato in continuità perfettamente ammissibile (anche nella versione di strutture più radicali che prevedono la cessione dell’azienda all’affittuario al termine dell’affitto).
Si sostiene, infatti, che la nozione di continuità aziendale debba intendersi in senso “oggettivo” e non soggettivo e quindi la stessa sarebbe perfettamente integrata anche quando sia un terzo (e non l’imprenditore) a continuare l’azienda. Non sarebbe in ogni caso eliminato il rischio di impresa gravante comunque sull’imprenditore-debitore, seppur indirettamente, che sopporterebbe una diminuzione del valore o il mancato pagamento dei canoni in caso di inefficiente gestione da parte del terzo del complesso aziendale affittato.
In secondo luogo, con un’argomentazione di carattere sostanziale e quasi sistemica, si afferma che la stipula di un contratto di affitto “interinale” a servizio di una futura e successiva rivendita dell’azienda sia necessaria per non disperdere il valore dell’unità produttiva e per preservare i valori economici ed aziendali primari (i.e. avviamento, relazioni commerciali con clienti e fornitori, capacità attrattiva del marchio, personale dipendente chiave, etc. etc.).
Un debitore insolvente, infatti, tipicamente nelle fasi pre-fallimentari non è in grado di garantire il capitale circolante (inteso soprattutto come disponibilità di cassa e magazzino) necessario per poter continuare l’attività ed un stop al “going concern” in un momento di precarietà assoluta, come quella che caratterizza la fase prodromica dell’insolvenza, toglierebbe definitivamente ossigeno ad una realtà già agonizzante, con consequenziale morte dell’impresa.
In tale ottica, l’intervento del “cavaliere bianco” che si prende in carico il complesso aziendale in difficoltà per sostenerlo e rilanciarlo, con anche un occhio di riguardo ai livelli occupazionali, non può che essere visto di buon grado. Ed è anche in virtù di queste considerazioni sistematiche, di ordine anche macroeconomico, che è stato ritenuto più volte in passato che la continuità aziendale è un valore di per sé stesso, indipendentemente dal soggetto che riesce a garantirla. È quindi possibile realizzare il concordato in continuità anche quando l’azienda è ceduta o affittata a terzi.
Peraltro, anche a voler solamente leggere la norma, la cessione (e quindi la trasmissione dell’azienda al di fuori della gestione dell’imprenditore in difficoltà) pare perfettamente ammissibile. Si vedano Tribunale Macerata 12 gennaio 2017, Tribunale Udine 05 maggio 2016, Tribunale Alessandria 18 gennaio 2016, Tribunale Roma 24 marzo 2015, Tribunale Bolzano 10 marzo 2015, Tribunale Reggio Emilia 21 ottobre 2014, Tribunale Vercelli 13 agosto 2014, Tribunale Cuneo 29 ottobre 2013, Tribunale Monza 11 giugno 2013.
CONCLUSIONI
La scelta per la piena compatibilità tra affitto d’azienda – anche anteriore alla domanda di concordato – e concordato con continuità aziendale venne tuttavia espressa dal legislatore della delega (art. 6, comma 1, lett. i), n. 3, della legge 19 ottobre 2017, n. 155) per la redazione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14).
Tale delega venne attuata con l’art. 84, comma 2, del suddetto Codice della Crisi d’Impresa, ove si annovera, tra le ipotesi di continuità nel concordato quella dell’“affitto, stipulato anche anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso”. Si tratta del c.d. “affitto ponte” che l’imprenditore stipula al fine di salvaguardare, con la dovuta tempestività nell’interesse dei creditori, i valori immateriali insiti nella conservazione della capacità produttiva del patrimonio organizzato in azienda.
Una volta quindi che entrerà in vigore il Codice della Crisi d’Imprese, non vi saranno più dubbi, per espressa disposizione di legge in merito alla validità della continuità indiretta.
Per quel che riguarda l’interpretazione della tuttora vigente legge fallimentare, deve altresì segnalarsi che è intervenuta una sentenza della Corte di Cassazione a statuire che “il concordato con continuità aziendale … è configurabile anche qualora l’azienda sia già stata affittata o si pianifichi debba esserlo” (Cass. 19 novembre 2018, n. 29742).
Ragioni di rilevanza sistematica sopra espressa sono state accolte dal legislatore e dalle giurisdizioni superiori e pare a questo punto non ci siano più dubbi in merito a tale forma di salvataggio dell’impresa.