L’uso quotidiano dei social network ha portato a una generale disinibizione rispetto ai contenuti personali che vi vengono esposti. Non solo foto di sé, di amici o famigliari, ma spesso veri e propri racconti dettagliati della nostra vita vengono destinati ai profili su Instagram, Facebook o LinkedIn, andando ad arricchire la rete di informazioni che ci riguardano direttamente.
Queste fonti di informazioni in quanto “aperte” sono accessibili ai più se non a tutti, compresa l’Amministrazione finanziaria, che ne può ricavare elementi da affiancare ad altre fonti informative nell’iter di accertamento fiscale.
L’argomento è sempre più attuale negli Stati Uniti ma anche in Europa, tra i cui paesi la Francia è stata il primo a regolamentare questa materia con una legge apposita che prescrive da quali fonti l’amministrazione transalpina può ricavare i dati, in che modo gli stessi devono essere trattati e, cosa più importante, quali sono le violazioni tributarie, anche penali, perseguibili in ragione dei dati così ottenuti.
Negli Stati Uniti le istanze rivolte alle principali piattaforme social sono ormai molto frequenti e spesso innescano cause legali contro i gestori allorché viene opposto un rifiuto a fornire i dati richiesti.
ORIENTAMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA IN ITALIA
In Italia il primo indirizzo in materia lo ha dato l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 16/E del 2016, che invita gli organi accertatori ad utilizzare fonti di prova “aperte”, ovvero non regolamentate, come i social network e i siti web, in via supplementare rispetto alle fonti specifiche di cui l’Erario normalmente si avvale.
In seguito, è stata la circolare della Guardia di Finanza n. 1/2018 a indicare le informazioni desunte da internet quale motivo di avvio delle verifiche fiscali.
Nella sostanza, comunque, l’esperienza italiana rispetto a questi canali risulta ancora limitata, seppure non siano mancati casi in cui il ricorso a dati o informazioni desunte dal web abbiano avvalorato le pretese erariali verso il contribuente.
Esemplare in questo senso l’ordinanza n. 308/2020 della Corte di Cassazione che ha legittimato la produzione in giudizio di foto scaricate da Google Street View come prove dell’imposta di pubblicità reclamata da un Comune italiano, per un periodo di quattro anni, nei confronti di un esercente che esponeva un cartellone pubblicitario su un proprio automezzo.
Bisogna tenere conto che la grande mole di dati presente in rete è ormai processabile mediante algoritmi sempre più complessi ed accurati.
Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza hanno iniziato a predisporre procedure ad hoc con l’obiettivo evidentemente di intercettare maggiore capacità contributiva rispetto a quella dichiarata e, soprattutto, di contrastare residenze estere fittizie, come peraltro si prefigge esplicitamente la legge francese a cui si accennava sopra.
E proprio l’esperienza francese ci racconta di casi in cui il Fisco è stato in grado di individuare proprietà immobiliari la cui consistenza non era stata, in tutto o in parte, dichiarata alle autorità finanziarie.
Per quanto riguarda, invece, i procedimenti ascrivibili al cosiddetto “redditometro”, le difficoltà potrebbero derivare dall’uso in rete di nomi differenti da quelli anagrafici, ad esempio per il ricorso a nicknames, che renderebbero il contribuente non immediatamente rintracciabile e identificabile con il proprio codice fiscale.
Resta il fatto che documentare sul proprio profilo un tenore di vita ovvero acquisti personali di lusso, anche reiterati, potrebbe far sorgere domande scomode circa la compatibilità con i redditi dichiarati.
ACCERTAMENTO DELLA RESIDENZA
Accedendo ad un profilo pubblico ricco di informazioni personali l’amministrazione finanziaria potrebbe avere gioco facile anche nella localizzazione della persona nel corso dell’anno, con le conseguenze che ciò può portare in termini di accertamento della residenza fiscale effettiva, nonché sulla territorialità, ad esempio, dei redditi da lavoro. Se sul primo aspetto i rischi di un uso disinvolto delle piattaforme social appaiono evidenti. Molta più attenzione è probabilmente necessaria, da parte di chi si trova ad operare in situazioni di mobilità internazionale, nello svolgimento della propria professione.
Si pensi, ad esempio, al caso di un residente estero che per motivi legati alla propria attività risieda per un periodo continuativo ovvero superiore complessivamente ai 183 giorni all’anno in Italia, svolgendo il proprio lavoro da un domicilio italiano a favore di un committente estero; è ipotizzabile che, qualora tale circostanza emerga in modo sufficientemente chiaro da foto e informazioni postate sui propri profili, il Fisco potrebbe avviare attività di controllo tese ad accertare tanto l’omessa dichiarazione in Italia di redditi di lavoro autonomo, imponibili a norma dell’art. 23 comma 1 lettera d) del TUIR, quanto una residenza di fatto nel territorio dello Stato.
Analogo tema, ma di segno opposto, si potrebbe porre per i cosiddetti “rimpatriati” che usufruiscono delle relative agevolazioni e si trovano sovente ad affrontare le questioni poste dall’Agenzia delle Entrate sui lavoratori distaccati.
È evidente che alcune piattaforme sono maggiormente suscettibili di esporre a rischi del genere, come può essere per i profili LinkedIn, che non sono anonimi e riportano solitamente la storia lavorativa dell’utente e la sua localizzazione.
Per chi usa i social si tratta, quindi, in primo luogo, di tutelare in modo appropriato la propria privacy e rendere le informazioni fornite compatibili e armonizzabili con la propria situazione personale e professionale senza creare contrati con la stessa e far emergere dati di fatto difformi.
Ad esempio, potrebbe costituire una prima garanzia esporre dati utili a ricostruire agevolmente la localizzazione dell’attività lavorativa e professionale, la permanenza fisica in Italia o all’estero, nonché la nazionalità e residenza del datore di lavoro. Questi ultimi costituiscono gli elementi fondamentali contemplati dall’art. 15 del modello OCSE delle Convenzioni contro le doppie imposizioni per individuare la territorialità dei redditi di lavoro dipendente.
CONCLUSIONI
Il tema, come detto, è oggetto discussione e valutazione in diverse giurisdizioni nazionali e inerisce ad un equilibrio tra privacy della persona e rilevanza pubblica delle informazioni che la stessa decide di condividere con gli altri utenti del web.
L’evoluzione che ha visto i social network diventare parte integrante della quotidianità di molte persone, che affidano ad essi parti rilevanti della propria vita privata, interesserà sempre di più la sfera pubblica dei propri rapporti, compresi quelli con le autorità pubbliche e l’amministrazione finanziaria. In un’epoca in cui il tema della privacy e della protezione dei dati è altrettanto esasperato, appare contraddittoria la superficialità con cui la sfera personale viene esposta su piattaforme aperte.
Una sorta di auto due diligence sullo stato dei propri profili potrebbe rendersi necessaria per non incappare in futuro in contradditori con il Fisco e in generale con quanti sono incaricati di accertare la congruità dei dati ad esso dichiarati.